Conoscenza e ricerche sul territorio o altrove




Le ultime ore del fascismo a Cremona, pomeriggio del 26 aprile 1945

Chi trattò e come avvenne la resa dei 600

fascisti armati fino ai denti


Si sono arrogati in molti questa resa che risparmiò ai cremonesi un immenso bagno di sangue - Pubblichiamo adesso un eccezionale documento originale, suffragato da indiscutibili accertamenti raggiunti per conto del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, del ministro della Difesa Giovanni Spadolini e, ai tempi, dai servizi segreti del generale inglese Alexander, con una ulteriore conferma di un testimone diretto, il futuro senatore Ennio Zelioli Lanzini


Il recente volume di Vicini e Dossena presentato in gran smalto alla biblioteca governativa di Cremona (leggi) ha aumentato l'interesse non solo attorno alla figura di Roberto Farinacci , ma pure attorno ai fatti che si svolsero in conseguenza della sua partenza da Cremona.

Cosa accadde alle ore 14 del 26 aprile quando effettivamente avvenne a Cremona la presa di potere del CLN? (Va ricordato che il giornale di Farinacci, il “Regime Fascista” uscì ancora nelle edicole la mattina del 26 aprile. Non è dunque il 25 aprile la data storica della fine del fascismo a Cremona, ma il giorno dopo).
In particolare cosa avvenne all'attuale Palazzo Ala Ponzone, allora Palazzo della Rivoluzione, sede del PNF, dove erano asserragliati circa 600 fascisti armati fino ai denti? Il fatto non è trascurabile perché molti si sono arrogati i meriti della soluzione apparentemente incruenta di una situazione critica che avrebbe altrimenti potuto coprire di un fiume di sangue l'intera città se questi stessi fascisti avessero deciso di resistere ad oltranza. Intorno alla trattativa (ed in particolare ai dettagli della loro resa), “Il Vascello” è tuttavia venuto in possesso di un documento integrale e sensazionale, la testimonianza nell’originale dattiloscritto, di Giuseppe Fazzi che trattò direttamente la resa assieme al parroco di Borgo Loreto don Franco Amigoni (il sacerdote cappellano militare temporaneamente alloggiato in Curia dopo il bombardamento della canonica da Borgo Loreto. Nel suo appartamento, dove alloggiava anche la madre del sacerdote, andarono a rifugiarsi - come esito della trattativa condotta al Palazzo della Rivoluzione - tre fascisti, Francesco Aschieri, Mario Merlini, e Piero Marcotti. Scaricati dal vescovo Cazzani, il primo venne linciato, il secondo fece harakiri e fu quindi giustiziato morente in piazza Marconi, il terzo - pittore - fu associato alle carceri di via Jacini).
Il documento di Giuseppe Fazzi si deve ritenere la versione autentica dei fatti. La conferma è venuta, come testimoniano i documenti che lo accompagnano, dagli accertamenti compiuti per conto dl gen. H.R. Alexander "che gli attribuì il certificato a lato, come "Patriota" meritorio), maresciallo comandante supremo alleato delle Forze nel Mediterraneo centrale, dal diploma rilasciato dal Ministero della Difesa su istanza del Presidente della Repubblica Pertini, dalle indagini condotte a Cremona per conto dello stesso Pertini e del ministro Spadolini, dalla testimonianza diretta e sottoscritta di un protagonista di quelle ore, il futuro senatore Ennio Zelioli Lanzini.
Giuseppe Fazzi lavorò a lungo in Biblioteca come umile impiegato. E’ scomparso da qualche anno.


La partenza di Farinacci e le trattative con Ortalli

Per comprendere fino in fondo l'andamento dei fatti occorre premette il contesto generale, così come viene configurato prevalentemente dallo storico Armando Parlato nel suo prezioso volume "La Resistenza Cremonese".


Mons. Boccazzi benedice i gagliardetti delle donne fasciste

Già dal precedente 25 aprile, era stata respinta dal CLN una proposta di Roberto Farinacci per un passaggio "morbido" dei poteri. La decisione era stata fortemente influenzata anche dall'arcivescovo Cazzani che aveva rifiutato di trattare

con il ras di Cremona ed aveva indicato come interlocutore il capo della Provincia avvocato Ortalli.

Dopo la partenza di Farinacci, così come era stato concordato, .... “parte dal palazzo vescovile una delegazione del CLN-CVL che si era incontrata con Cazzani, avendo il CLN appunto accolto la sua mediazione con Ortalli. Escono dalla Curia l’avvocato Rizzi (DC) e Frassi (PSI), che costituiscono la delegazione del CLN-CVL e sono con loro anche il vescovo, il suo segretario monsignor Giglio Bonfatti e l’avvocato Ennio Zelioli Lanzini (DC). Mentre i primi due, guidati da un ufficiale della GNR e percorrendo le vie deserte, si portano al palazzo della Prefettura, dove li attende Ortalli che accetterà la resa incondizionata e rassegnerà al CLN i poteri della provincia (verrà fatto prigioniero), gli altri proseguono per trattare con i tedeschi di Palazzo Trecchi.
Una descrizione « dattiloscritta» riporta i particolari della resa in Prefettura.
Nelle sale e nei corridoi del palazzo di via Vittorio Emanuele regnava una certa animazione. Gruppi di ufficiali della GNR e delle BB.NN. stazionavano chiacchierando sommessamente. La delegazione venne subito introdotta nell’ufficio del capo della provincia fascista. L’avv. Ortalli deteneva da qualche mese ufficialmente nelle sue mani la somma dei poteri politico-militari così come un decreto della RSI aveva statuito. Formalmente lo stesso Farinacci doveva seguire le sue direttive alla pari del 20° comando militare fascista.
Ortalli in quel mattino del 26 aveva ben compreso la situazione. Le truppe alleate avanzavano ormai a raggera procedendo dovunque con punte corazzate. Le unità tedesche ripiegavano ovunque in disordine; le « sacche» di resistenza non sarebbero servite a nulla. L’insurrezione era già vittoriosa a Genova, a Torino ed a Milano. Era finita per il fascismo. Agli uomini del fascismo non restava che la via dell’accordo. La discussione fondata su questi elementi di fatto e sulla persuasione dei rappresentanti della Resistenza cremonese che essi non potevano che richiedere la resa senza condizioni, si svolse rapidamente e con una certa qual formale cortesia. Venne interrotta da due incidenti. Il primo determinato dal console Tambini, comandante della XVII Legione GNR, il quale entrò nell’ufficio del capo provincia gridando: « Perché si deve trattare quando costoro ci fucileranno tutti? ». Ortalli fece allontanare Tambini che forse prevedeva di cadere dopo qualche giorno (come avvenne) sotto il piombo degli insorti in provincia. Il secondo da una telefonata di Roberto Farinacci. Gli astanti logicamente non sentirono ciò che egli diceva. Deposto il telefono il capo della provincia (abbiamo raccolto il fatto - afferma Armando Parlato - dalle parole di uno dei testimoni oculari), disse: «Era quell’asino di Farinacci; se n'è andato: buon viaggio»”.
Nel frattempo, però, restava una trattativa delicatissima da condurre. Quella con i 600 fascisti asserragliati nel Palazzo della Rivoluzione. Ed è qui che entra in gioco la testimonianza di Fazzi.

La delicatissima trattativa di Don Franco Amigoni e di Giuseppe Fazzi


Da poco ritornato dalla Russia.... io ero inquadrato nelle file partigiane della Brigata Rosselli. Conobbi vari gruppi operanti nella città e nella nostra provincia e piacentina. E venne il 26 aprile 1945. Avevo l'ordine del geometra Lionello Miglioli, nostro comandante, di trovarmi in Piazza del Duomo con tutti i compagni. Infatti alle 13.30 circa con un buon gruppo ci trovammo nel luogo stabilito. .... Ordinati in plotoni, si attendevano le fasce tricolori, nostri segni di distinzione che un altro gruppo doveva fornirci. Si facevano alquanto attendere. Allora andai a ritirarle, ma non essendo ancora pronte, dovetti ritornare senza.


Palazzo rivoluzione: Farinacci con gli squadristi

Trovai il geometra Lionello Miglioli che stava trattando per andare a parlare con i fascisti che si trovavano al Palazzo della Rivoluzione. Nessuno aveva il coraggio di andare a discutere la faccenda. Anzi alcuni gruppi erano decisi ad occupare il palazzo con le armi. Con la mia esperienza di guerra e col timore che questi ragazzi compissero qualche atto inconsulto che avrebbe potuto compromettere l'operazione e temendo uno spargimento di sangue da ambo le parti ormai inutile, mi offersi di andare di persona a trattare la questione. Mi accompagnò un ecclesiastico, don Franco Amigoni (Cappellano Militare), parroco di Borgo Loreto. Ci incamminammo verso il palazzo della Rivoluzione, dove si radunavano tutti i fascisti in ritirata dal fronte di Bologna (in effetti, si erano aggiunti altri fascisti emiliani, alcuni con le loro famiglie, nel timore di rappresaglie personali - ndr).

Eravamo disarmati e, perché lo notassero, camminai con le mani al fianco molto in alto. Davanti al portone era piazzata una mitragliatrice a lunga portata con un milite e un ufficiale. Mi avvicinai e scostai il milite, scaricai l'arma e portai le munizioni lontano, meravigliato che i due uomini non opponessero alcuna resistenza. Il portone del palazzo era chiuso. Lo aprii facendolo scorrere lateralmente sulle guide.

I fascisti erano in gruppo nel cortile. Mi misi sull'attenti e militarmente salutai. Attesi. Al mio fianco era don Franco. Venne un ufficiale. Salutò con il saluto fascista, ci presentammo. Ero impreparato a ciò che dovevo dire, affidandomi alla Provvidenza. Spiegai che anch'io ero un militare e che, come loro, ebbi a subire le conseguenze della sconfitta e della recentissima ritirata in Russia. Descrissi il dolore e il sacrificio dei nostri soldati. Accennai a quello che sarebbe successo se ambo le parti non avessero ragionato con comprensione dei fatti che stavano succedendo. Dissi che ero lì dopo una scrupolosa meditazione per compiere un atto di coscienza, per evitare un'inutile lotta fratricida.

Non c'era più altro da fare, dato che gli Americani erano alle porte della città, che cedere le armi. Promisi piena libertà di movimento, purché facessero presto.

L'Ufficiale mi rispose che non poteva decidere da solo, che doveva interpellare gli Ufficiali presenti e mi salutò andando verso di loro. Attesi sull'attenti, immobile.

Il pensiero correva velocemente alle reazioni che il mio atto e le mie parole potevano suscitare. Speravo molto che nulla dovesse compromettere ciò che stavo facendo, tutto doveva essere limpido e puro. In quel momento pregai.

Sentii discutere e una voce sollevarsi al disopra delle altre: "Io sono fascista e voglio morire da fascista". Il tempo passava velocemente.

Finalmente un giovane si fece avanti e mi disse: "Sono un mutilato". Infatti aveva una gamba artificiale. "La pistola mi è sempre stata amica e mi è molto cara. So che è una brava persona, la tenga lei".

Ringraziai, presi l'arma e la scaricai, la misi in un angolo e risposi: "Non appena finita l'operazione, prometto di raccoglierla e tenerla con me".


L'ultima pagina del documento di Giuseppe Fazzi

Mandai don Franco a firmare permessi di lasciapassare: non so come se la sia cavata. Il fatto che uno alla volta mi consegnarono le armi: fucili, fucili mitragliatori, pistole di tutti i calibri e di tutte le forme. Ammucchiarono tutto nell'atrio del palazzo. Non so quante fossero, certo più di quattrocento. Seppi poi che nel palazzo c'erano asserragliati più di 600 fascisti.

Feci avvisare il Comando che procedeva tutto regolarmente e non tentassero colpi di testa.

I fascisti più esaltati non si decidevano a consegnare le armi e gridavano, parlottavano, forse combinavano qualche azione tra di loro. Li lasciai sfogare senza intervenire. Attendevo calmo e finalmente anch'essi seguirono l'esempio dei primi.

Mentre si svolgeva il disarmo, una macchina di passaggio, carica di militari tedeschi armati di mitragliatrice e di fucili, si dirigeva verso il Po. La fermai e chiesi che imitassero i loro alleati. Con parole aspre e il movimento del caricare le armi, mi fecero capire che non le avrebbero cedute. Per non compromettere tutta l'azione, feci loro cenno di proseguire. Pochi minuti dopo sentii una furiosa sparatoria. Erano i ragazzi di Peter che a Porta PO cercavano di fermare i nemici.

Intanto tra i fascisti alcuni si svestivano, altri si rifugiavano nelle case vicine e altri ancora, indossata una semplice tuta, se ne andavano alla chetichella. Ricordo un frate dalla folta barba, vestito con sahariana e una grande croce Rossa sul petto, che partì in macchina con l'Ufficiale Comandante la piazza.

Alcune ausiliarie disperate piangevano e pregavano nel Sacrario dei Martiri fascisti sotto il porticato (ora murato). Le vidi supplicare.

Le portai all'albergo Impero perché si cambiassero l'abito.

Ritornai al Palazzo della Rivoluzione. Quasi tutti se n'erano andati. Ma un partigiano (geometra Angiolino Davò) con un motocarozzino stava caricando le armi accatastate sotto il portone. Gli ordinai di lasciare tutto e andarsene. Così fece.

Restai ancora un po' e poi mi allontanai anch'io. I compagni ormai si erano sparsi per la città, chi per porta Milano, chi per la caserma Masserotti. Il Comando era ormai vuoto.

M'incamminai verso casa, all'ora abitavano in via Aporti n° 11. Poco distante da casa, all'altezza di Sant'Imerio, un partigiano di sentinella puntando il fucile verso di me , mi intimò l'alt. Mi chiese la parola d'ordine e dove andassi. Gli risposi che la parola d'ordine non la sapevo e che me ne tornavo a casa, indicando dove abitavo. Mi rispose: "Non fare scherzi, perché tiro diretto!".

Così dopo essere stato in prima linea sui fronti della Francia, della Jugoslavia e della Russia, arrischiai di essere fucilato a due passi da casa, da un italiano, anzi da uno stesso concittadino appartenente alla mia stessa parte. Ma così erano quei tempi.

Giuseppe Fazzi - Cremona - 25 aprile 1965


Una tragedia sconosciuta: 72 in fuga dal Palazzo della Rivoluzione uccisi dai SAP nell'attraversamento del Po?

Giorgio Pisanò riferisce che i lasciapassare non furono consegnati. Il senatore missino, ex direttore de "Il Borghese" e poi di una serie a fascicoli (Storia del XX Secolo) dedicata alla Repubblica Sociale ed alle vittime fasciste, sostiene che i fascisti in fuga dal Palazzo della Rivoluzione furono intercettati dai sapisti appostati sulle rive del Po e che nel tentativo di attraversare il fiume furono uccisi "almeno 72 fascisti e alcuni loro familiari". Se l'affermazione fosse confermata si tratterebbe di una strage sin qui pressoché ignota anche se Armando Parlato conferma che compito delle SAP era di controllare i movimenti e di impedire con azioni di guerriglia che gruppi tedeschi potessero sbarcare indisturbati.... E infatti la loro attività aveva dato in poche ore risultati notevoli. Vicino al ponte una decina di soldati e alcuni sottufficiali vennero attaccati e uccisi, sulla strada del traghetto un autocarro con a bordo cinque soldati e un sottufficiale fu attaccato con lancio di bombe a mano e raffiche di mitra. I militari furono uccisi e l'automezzo distrutto".

Si trattava di militari tedeschi come sembra fare intendere Parlato o dei fascisti in fuga dal palazzo della Rivoluzione come sostiene Pisanò?

Purtroppo col passare degli anni i testimoni di queste vicende stanno tutti scomparendo. E forse l'interrogativo resterà senza risposta.





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